Che tu abbia scelto il percorso lungo o quello breve, lungo il tragitto passerai anche da alcuni luoghi citati nei vari scritti di Luigi Pirandello.

Riconoscerai questi luoghi perché sulle mappe che troverai lungo il percorso sono indicati con degli esagoni rossi.

Luigi Pirandello descrive in vari scritti il centro storico di Agrigento.

Da:

RITORNO

Dopo tant’anni, di ritorno al suo triste paese in cima al colle, Paolo Marra capì che la rovina del padre doveva esser cominciata proprio nel momento che s’era messo a costruire la casa per sé, dopo averne costruite tante per gli altri.

E lo capì rivedendo appunto la casa, non più sua, dove aveva abitato da ragazzo per poco tempo,

in una di quelle vecchie strade alte, tutte a sdrucciolo, che parevan torrenti che non scorressero più: letti di ciottoli.

 

 

VISTO CHE NON PIOVE…. (Tonache di Montelusa)

…, dopo le solenni funzioni in chiesa, era condotta sul fercolo in processione per le erte vie di Montelusa, tra le vecchie casupole screpolate, pigiate, quasi l’una sull’altra; su, su, fino alla Cattedrale in cima al colle;

 

 

IL TURNO

Ah, se invece di nascere in quella triste cittaduzza moribonda, fosse nato o cresciuto in una città viva, più grande, chi sa! chi sa! la passione che aveva per la musica gli avrebbe forse aperto un avvenire. Una forza ignota nell’anima se la sentiva: la forza che lo tirava in certi momenti alla vecchia spinetta scordata della madre e gli moveva le dita su la tastiera a improvvisare a orecchio minuetti e rondò. Certe sere, mentre contemplava dal viale solitario, all’uscita del paese, il grandioso spettacolo della campagna sottostante e del mare là in fondo rischiarato dalla luna, si sentiva preso da certi sogni, angosciato da certe malinconie. In quella campagna, una città scomparsa, Agrigento, città fastosa, ricca di marmi, splendida, e molle d’ozii sapienti. Ora vi crescevano gli alberi, intorno ai due tempii antichi, soli superstiti; e il loro fruscìo misterioso si fondeva col borbogliare continuo del mare in distanza e con un tremolìo sonoro incessante, che pareva derivasse dal lume blando della luna nella quiete abbandonata, ed era il canto dei grilli, in mezzo al quale sonava di tanto in tanto il chiù lamentoso, remoto, d’un assiolo.

 

IL VITALIZIO

Non per nulla la gente del paese se lo richiamava con piacere alla memoria lacero e impolverato su per le viucole a sdrucciolo del quartiere di San Michele con la balla della mercanzia sulle spalle e la mezzacanna in una mano, tutto sudato mentre dell’altra si faceva portavoce nel gridare: – Roba di Fràaancia!

 Anziché da Porta di Ponte preferiva prendere per la via Solitaria sotto San Pietro fino al Piano di Ravanusella; con tutto che fosse malfamata quella via per tanti delitti rimasti oscuri e, a passarci sul tardi, incutesse un certo sgomento. I passi vi facevano l’eco, perché il pendio del colle troppo ripido metteva lì quasi a ridosso i muri delle case. Case che, sul davanti, nella straduccia più su, erano d’un sol piano e di misero aspetto, qua di dietro avevano certi muri che parevano di cattedrale. Dall’altro lato, in principio, la via mostrava ancora l’antica cinta della città con le torri mezzo diroccate. Nella prima, chiusa appena da una partaccia stinta e sgangherata s’esponevano i morti sconosciuti e si portavano per le perizie giudiziarie gli uccisi. Attraversando quel tratto, Maràbito avvertiva realmente, nel silenzio e tra l’eco dei passi, come un sospetto che ci fosse qualcosa, in quella via, di misterioso; e non gli pareva l’ora d’arrivare al Piano di Ravanusella, arioso. Ma vi respirava per poco. Gli toccava di là risalire verso lo stretto di Santa Lucia, anch’esso malfamato e quasi sempre deserto, per riuscire a Porta Mazzara, dove imboccava la via del Ràbato.

 

Maràbito non l’amava, quel suo casalino; come non amava la città, a cui prima dalla campagna non saliva quasi mai. Ora, a poco a poco, cominciava a riconoscerne le viuzze, ma come da lontano, a certi odori che lo facevano fermare, Perché gli ridestavano dentro svaniti ricordi dell’infanzia. Si vedeva ragazzetto trascinato per mano dalla madre e su e su per tutti quei vicoli a sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti e tutti in ombra, oppressi dai muri delle case sempre a ridosso, con quel po’ di cielo che si poteva vedere nello stretto di essi, a storcere il collo, che poi nemmeno si riusciva a vederlo, abbagliati gli occhi dalla luce che sfolgorava dalle grondaie alte; finché non arrivava al Piano di San Gerlando su in cima alla collina. Ma arrivato lassù, di tutta la città non scorgeva altro che tetti: tetti tesi in tanti ripiani, tetti vecchi, di tegole logore, o tetti nuovi, sanguigni, o rappezzati, che sgrondavano di qua e di là, chi più e chi meno; qualche cupola di chiesa col suo campanile accanto e qualche terrazza su cui sbattevano al vento e sbarbagliavano al sole i panni stesi ad asciugare.

 

 

 

LA CASA DEL GRANELLA

La vista dello sterrato deserto, dopo il quale l’alto colle su cui sorge la città strapiomba in rigidissimo pendio su un’ampia vallata, con quell’unico lampioncino, la cui fiammella vacillava come impaurita dalla tenebra densa che saliva dalla valle, non era fatta certamente per rincorare un uomo dalla fantasia un po’ alterata. 

 

 

 

UNO, NESSUNO E CENTOMILA

Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai alla Badia

 

I VECCHI E I GIOVANI

Dominata, in vetta al colle, dall’antica cattedrale normanna, dedicata a San Gerlando, dal Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto. Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l’invito alla preghiera, diffondendo per tutto un’angosciosa oppressione